Tibi dabo claves regni caelorum

VALERIO GIGLIOTTI, microestratto dalla relazione esposta al convegno organizzato dall’associazione Amici del Cardinale Caffarra, tenutosi a Roma il 7 aprile 2018


Il Romano Pontefice, come si è accennato, detiene, per tradizione, una potestas ordinaria, suprema, piena, immediata e universale. La sequenza stessa di tali qualificazioni, congiunta all’ingiudicabilità formale della Prima Sede, indurrebbe uno sguardo poco critico a scorgervi il presupposto di una pressoché totale assenza di limitazioni e, di conseguenza, il rischio di un qualche arbitrio soggettivo da parte del Pontefice nell’esercizio del suo ufficio. Se si considera inoltre come quella del Papa sia una “responsabilità personale”, come egli succeda personalmente nella funzione e non collegialmente – come il Collegio dei Vescovi – e come egli possa agire anche indipendentemente da quest’ultimo, come sottolineato esplicitamente dalla Nota esplicativa anteposta alla Costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano II, appare quanto mai necessario prendere in esame quale sia il reale spazio di discrezionalità che gli spetta e quali i limiti del suo ministero. L’idea, tutta contemporanea, per cui il ministero petrino, indissolubilmente legato con tutte le prerogative a esso connesse (tra cui la funzione di “confermare i Cristiani nella fede”…), si identifichi totalmente e quasi esclusivamente con la persona fisica dell’uomo che ricopre l’ufficio è un effetto distopico della società postmoderna, della modernità “liquida” direbbe il sociologo Zygmunt Bauman, e sicuramente influenzata da un forte soggettivismo e da un personalismo che i mezzi di comunicazione di massa amplificano e reificano in forma straordinaria ed eccezionale. Se però si guarda con l’occhiale del teologo e dello storico, alla Tradizione bimillenaria della Chiesa cattolica, si può agevolmente osservare come da sempre il binario della riflessione teologica, giuridica e magisteriale nella definizione del ministero petrino sia stato, per così dire, doppio: da un lato una progressiva e sempre più precisa definizione delle prerogative potestative piene e universali del “successore di Pietro” e (da Innocenzo III in poi) “Vicario di Cristo”, dall’altro il contestuale riconoscimento dei limiti cui è soggetta la persona fisica che ricopre tale unico e particolarissimo ufficio nella Chiesa. Quale logica conseguenza a tale “bivalenza” la sapienza dei Padri della Chiesa e la tradizione canonistica e teologica hanno elaborato la duplice prospettiva di predisporre, sul primo “binario” (il Papa-istituzione) alcuni correttivi giuridici alla plenitudo potestatis; ovvero, in casi particolarmente gravi, sul secondo binario (dove in gioco entra la figura del Papa-individuo con la manifestazione delle proprie personali convinzioni), l’appello alla coscienza dei fedeli a conformarsi, in caso di contrasto con la retta dottrina, al Capo unico della Chiesa, cioè a Cristo Signore e alla Tradizione immutata della regula fidei contenuti nella Scrittura e nel Magistero dei Papi e dei Vescovi piuttosto che alle opinioni “devianti” o comunque non conformi alla dottrina di qualsivoglia pastore.

A premessa di quanto ora dirò, ricordo che il Sommo Pontefice può sempre esercitare liberamente la propria potestas in forza della “istituzione divina”, che evidentemente ha un carattere inderogabile e non può essere soggetta ad alcuna potestà umana. Come affermato da San Giovanni Paolo II: «È per il desiderio di obbedire veramente alla volontà di Cristo che io mi riconosco chiamato come vescovo di Roma a esercitare tale ministero».

Non di meno, tuttavia, la potestà primaziale si configura con propri limiti sia di carattere oggettivo, legati e derivanti dalla natura stessa della potestà ecclesiastica, sia dalla costituzione stessa della Chiesa e – potremmo dire – da quella legge naturale che regola e governa l’intero universo. Se ammettiamo che il Papa non è vincolato neppure dalla Legge ecclesiastica – laddove essa non contenga la Legge divina rivelata e naturale -, tanto che a lui appartengono gli istituti della dispensatio e del privilegio, occorre intendere allora fino a qual punto egli possa dispensare – cioè andare contra ius – e seguendo quali criteri.

Il dato straordinario che vorrei qui mettere brevemente in luce è la perfetta saldatura tra quanto a partire dalla riflessione teologica e canonistica del medioevo, passando per la grande rielaborazione teologica e giuridica della Riforma cattolica di Trento e in particolare del Cardinale San Roberto Bellarmino, giunga alla riflessione contemporanea di vasto respiro, dal Concilio Ecumenico Vaticano I al Codex Iuris Canonicis del 1917, dal Cardinale John Henry Newman fino alle linee del Concilio Ecumenico Vaticano II e del Codice di diritto canonico riformato nel 1983 per volontà del Papa San Giovanni Paolo II su cui si soffermano, in questo stesso volume, i sapienti contributi dei Cardinali Walter Brandmüller e Raymond Leo Burke.

Sono rari i buoni che anche in tempo di pace sono capaci di servire Dio. Ma sono rarissimi quelli che per suo amore non temono le persecuzioni o sono pronti ad opporsi decisamente ai nemici di Dio. Perciò la religione cristiana – ahimè – è quasi scomparsa, mentre è cresciuta l’arroganza degli empi. (Papa Gregorio VII, Epistola ai monaci di Marsiglia)

Tibi dabo claves regni caelorumultima modifica: 2021-06-07T12:15:41+02:00da sedda-co
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