et bénedic hoc sacrifícium, tuo sancto nómini præparátum

Appena di rientro a casa dopo un anno passato coi francescani, l’allora padre spirituale mi faceva una confidenza. Raccontava di aver partecipato a Roma ad incontri con altri direttori di ufficio catechistico diocesano, in modo non esaltante se, restando in silenzio mentre li vedeva parlare, diceva dentro di sé: «Io faccio parte di questa Chiesa?». Il monsignore era qualificato all’incarico da una laurea in pedagogia di stravecchio ordinamento, quando era ancora una cosa seria. Però nella discussione in certe tavole rotonde si sentiva piuttosto alieno al senso comune. Un sentimento simile a quello, confesso che mi pervada dinanzi a certe scene liturgiche che i miei occhi vedono in medias res, quando la sensazione è di non capire neanche ciò che si sta guardando. Pertanto continuo a rileggere la liturgia antica, per comprendere come si è arrivati al presente.

L’offertorio all’epoca paleocristiana consisteva nell’offerta della materia del sacrificio (le specie eucaristiche di pane e vino) compiuta dai partecipanti o una parte di loro. La letteratura cristiana antica racconta che la processione dei fedeli era accompagnata dal canto di un salmo ripetuto per tutta la durata; cessato l’uso abituale di fare la processione offertoriale anche il salmo venne accorciato riducendosi a un’antifona. Così nella Messa tridentina, derivata dall’uso liturgico invalso fino all’epoca precedente (il tardo medioevo), si stabilì di eliminare del tutto la processione offertoriale. Questo gesto di offerta compiuto dall’assemblea liturgica è stato recuperato poi nel novus ordo attuale, assieme ad altri due elementi che sono l’ambone e la sede presbiterale. Tutto questo era presente nella Messa che originariamente e per tutto il medioevo, veniva celebrata pubblicamente solo da chi possiede la pienezza del sacerdozio, ovvero il vescovo. Ricordando san Tarcisio ricordiamo come il vescovo di Roma inviasse a tutte le parrocchie l’eucarestia consacrata nella sua Messa. Guardando per esempio alla realtà di principati e signorie, qual era la Firenze di San Filippo, il popolo di Dio partecipava all’unica Messa celebrata pubblicamente dal vescovo solo la domenica; in città non ce n’erano altre all’infuori della cattedrale e la Messa quasi quotidiana era riservata solo ai religiosi, con comunione sacramentale occasionale (Santa Chiara d’Assisi la faceva tre volte l’anno). Il vescovo era da sempre l’unico a disporre di una propria sede (cattedra) e di un ambone, piuttosto importante, dal quale altri proclamavano la parola di Dio. A un certo punto di crescita della Chiesa, i vescovi delegarono ai presbiteri la facoltà di celebrare la Messa; il gesto di immettere una frazione dell’ostia magna nel calice, nacque proprio come segno in comunione all’eucarestia celebrata dal vescovo. Il presbitero però non celebrava una Messa al pari del vescovo: non sedeva alla sede durante la celebrazione, né aveva altri ministri che leggessero per lui.

Il pane offerto dal Sacerdote a Dio è da sempre senza lievito, perché Cristo istituì la SS. Eucarestia nel primo giorno degli azzimi, tempo in cui non era consentito agli Ebrei cibarsi di pane lievitato (Esodo cap. 12). La Chiesa, memore degli insegnamenti del Salvatore, adottò quindi il pane azzimo, simbolo di purezza. Il Sacerdote secondo un uso antichissimo, prima di offrire il vino, vi infonde alcune gocce d’acqua. Quest’atto ha diversi significati simbolici: dal costato di Cristo sgorgò acqua e sangue, il vino rappresenta la divinità di Cristo mentre l’acqua l’umanità. Come la piccola goccia d’acqua penetra nel vino puro, così la nostra natura è elevata per mezzo della Grazia alla vita divina, secondo quanto recita sottovoce al momento il celebrante. Il Sacerdote quindi termina con una preghiera che implora sulle oblate la benedizione dello Spirito Santo. È invocata la Terza Persona della Trinità, il Santificatore, perché la Consacrazione che seguirà ha una profonda analogia con l’Incarnazione.

Il Celebrante a questo punto della Messa, mentre recita alcuni versetti del Salmo 25, si purifica le mani nel lavabo: le stesse che tra poco toccheranno il Corpo di Gesù! Quindi, esclamando “orate fratres”, invita l’assemblea ad unirsi in preghiera. È un antico invito che forse risale a Sant’Anacleto. Il celebrante esorta i fratelli a pregare affinché il «mio e vostro» sacrificio sia gradito a Dio. La preghiera esprime chiaramente la partecipazione dei fedeli: interiore nella preghiera silenziosa, esteriore negli atteggiamenti del corpo e nelle risposte vocali. Segue e chiude l’offertorio la recita sottovoce della Secreta, che accompagna le oblate con parole di profondamente significative.

et bénedic hoc sacrifícium, tuo sancto nómini præparátumultima modifica: 2020-11-06T11:16:19+01:00da seddaco
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