Nova et vetera

Nessun cattolico mette in dubbio la validità giuridica della riforma liturgica postconciliare, bensì si evidenzia l’interpretazione confusa e tendenziosa dei documenti, nel modo in cui si è voluto attuare i principi esposti dalla Costituzione conciliare. Id quod voluit, legislator dixit, quod taquit , noluit: quello che il legislatore ha voluto dire, lo ha veramente detto; quello che ha taciuto, non ha voluto dirlo. Se discontinuità vi è stata, non è nella volontà né nei documenti del Concilio Vaticano II ma nella lettura unilaterale che ne è stata fatta, contrapponendo al testo letterale (l’unico cui la Chiesa riconosca valore) un presunto “spirito del Concilio” che, da teologi “senza padre, senza madre, senza genealogia” (Eb 7,3), è stato messo in luce negli anni di ricezione. Lasciamo la parola a Benedetto XVI:
Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. […] Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. […] Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa. [Discorso di Sua Santità Benedetto XVI alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005]

Con l’edizione dell’ultimo nuovo messale i modernisti hanno messo a segno un colpo grosso, avvantaggiati dalla credenza che ormai non ci fossero più. Finché non si abolirà anche il “mea culpa”, dovrebbe battersi forte il petto chi vorrebbe archiviare la tradizione bimillenaria della Chiesa, per inventare una nuova religione che mette l’uomo al centro e Dio al di sopra, in uno schema di fantasia teologica. Riabilitando l’usus antiquior, Benedetto XVI recupera un patrimonio immateriale inestimabile che rivitalizza tanto i pezzi di antiquariato sacro, quanto la vita spirituale della Chiesa. L’articolo 1 del motu proprio papale Summorum Pontificum si apre superando la distinzione tra nuovo e antico, rinnovato e tradizionale, formulando in termini nuovi la possibilità di celebrazione secondo due forme del medesimo rito: ordinaria ed extraordinaria.

Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della “lex orandi” (“legge della preghiera”) della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da S. Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa.

È nell’ottica espressa dal Santo Padre che si può apprezzare il filo di Arianna che lega Tra le sollecitudini di Pio X a la Mediator Dei di Papa Pio XII, fino alla richiesta più esplicita di Giovanni XXIII. La necessità di actuosa partecipatio al santo sacrificio dell’altare, preghiera più consapevole ed attiva dei fedeli a Messa, fiorisce dopo un secolo di cammino nel concetto di “partecipazione” contenuto nel messale di Paolo VI. Tale continuità è messa in luce anche dal liturgista Enrico Mazza in un interessante saggio pubblicato sulla Rivista del Clero Italiano: «Il Vaticano II ha portato fino in fondo i principi enunciati nei documenti di Pio XII. […] Il messale di Giovanni XXIII [detto tridentino] e quello di Paolo VI appartengono allo stesso filone perché hanno la stessa logica, dato che entrambi recepiscono i criteri della partecipazione attiva dell’Instructio de Musica sacra et sacra Liturgia di Pio XII del 1958» (Vita & Pensiero, Novembre 2007). Una delle ragioni più felici che ha indotto il Papa Benedetto a promulgare il documento Summorum pontificum è così espressa da lui nella lettera accompagnatoria indirizzata ai Vescovi:
Subito dopo il Concilio Vaticano II si poteva supporre che la richiesta dell’uso del Messale del 1962 si limitasse alla generazione più anziana che era cresciuta con esso, ma nel frattempo è emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia. […] Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto” [Cfr. AAS 99 (2007), p. 777-781].

Nova et veteraultima modifica: 2020-10-03T15:17:30+02:00da seddaco
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