Considerazioni sulle leggi eversive

Osservavo nell’articolo precedente come sussista tuttora una testimonianza materiale che racconti la storia presentata nel libro “San Filippo a Napoli”. La realtà spaziale di quel luogo si mostra al nostro sguardo, testimoniando qualcosa che c’è stato ma pare non sussistere più… Quegli ambienti (chiesa, sacrestia, oratorio, chiostro, biblioteca, quadreria, casa) che pullulavano di vita quando abitati da persone che ne sfruttavano le risorse, sono rimasti per decadi semideserti. Quanto è rimasto conservato e inutilizzato all’interno, il patrimonio artistico e culturale, rappresenta ormai un museo di antiquariato? Una bellezza inutile? Come si è arrivati al disfacimento della realtà ricca e fiorente dei girolamini? Le conclusioni mettono in luce quanto sia spinosa la questione storica della quale noi ancora subiamo le conseguenze.

Le leggi eversive del 1866 con la soppressione degli ordini religiosi, espulsione dei membri, esproprio e incameramento dei beni, sono state a tutti gli effetti la più grande operazione di furto legalizzato realizzata dallo Stato italiano. Davanti a questo disastro che ha segnato irrimediabilmente la sorte di tanti Istituti, nel mio piccolo la mia riflessione vuole citare le parole di due personaggi più importanti di me.

Il primo è Papa Pio VII, pontefice imprigionato ed esiliato dall’esercito napoleonico che invase lo Stato Pontificio nel 1809. Fece ritorno a Roma solo in seguito alla prima pesante sconfitta di Napoleone a Lipsia, cinque anni più tardi (24 maggio 1814). Riappropriandosi della sua sede affermò che la Chiesa continuava il suo cammino «tra le persecuzioni degli uomini e le consolazioni di Dio». Il mitico Napoleone e il suo impero volgeva al tramonto – mentre Manzoni pensò di cantarne le odi – e la Chiesa militante continuava a sussistere, seppur materialmente provata dal regime napoleonico. “Afflitta” ma non “disperata”, provata materialmente dal regime napoleonico ma non “schiacciata” come voleva il celebre Voltaire. La Chiesa aveva una speranza più grande perfino della morte, capace di superare la fine con un nuovo inizio: «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33), dice Gesù. Il nostro Dio è più potente del Principe di questo mondo.
La seconda persona che voglio citare è il p. Sebastiano Maggi, preposito dell’Oratorio di Brescia (che riaprì dopo le soppressioni di Napoleone nel 1823). Chi ha preso in mano il mio libro, nella quarta di copertina trova appunto nominati i padri filippini della Pace. Affermava nel 1833 il padre Maggi:
«così periscono molte opere esterne anche buone degli uomini. Non v’ha che la virtù, che ci dura sempre e nessuno può rapircela. Rallegriamoci dunque poiché possiamo e dobbiamo procurare di avere beni più stabili e preziosi di tutti quanti i libri più rari, cioè l’amore alla nostra vocazione, la carità, l’umiltà, e il puro zelo della gloria di Dio» (articolo C. Ruggeri in La spiritualità bresciana dalla Restaurazione al primo Novecento)

La spoliazione di beni che – anche a Brescia – subiscono i religiosi con la perdita di cospicue parti di patrimonio, causa impoverimento materiale e quindi un sensibile abbassamento del tenore di vita. Se viene meno l’agiatezza e il benessere, lo sfarzo anche a gloria di Dio, come reagire? Quando svanisce l’apparire si torna all’essenziale e ci si concentra sull’essere: “i beni più stabili e preziosi di tutti quanti i libri più rari – diceva p. Maggi – vocazione, carità, umiltà, zelo”.
Il p. Timpanaro di Acireale, quando venne a Palermo nel 1931 per riaprire la Congregazione rimasta chiusa 11 anni – la casa era già museo -, si ritrovò in precari locali attigui all’Oratorio, al suo arrivo sprovvisti perfino di letti su cui dormire. Il padre sperimentò l’indigenza per amore della vocazione, spirito di sacrificio gratuito e santo. L’ultimo preposito di Palermo al 1866 (Giuseppe Girgenti) si spese anima e corpo per continuare a portare avanti l’attività dell’Oratorio e ufficiare la chiesa, dovendo abitare fuori della Congregazione ormai chiusa. Una situazione che ci ricorda anche San Luigi Scrosoppi, quando riuscì a ricostituire la Congregazione sciolta dalle soppressioni napoleoniche e nuovamente distrutta un decennio dopo dai Savoia. Egli non rinunciò mai all’abito filippino e a firmarsi come padre “dell’Oratorio”. Volendo approfondire potremmo nominare ancora il p. Giulio Castelli che nel 1890 da Torino si recò a Roma in aiuto della Vallicella, versante in condizioni di povertà e penuria di soggetti.

Nelle ristrettezze dobbiamo attaccarci saldamente a quanto ci resta e perseverare nella vocazione. Dobbiamo “rallegrarci” nello svolgere la nostra missione, certi che Dio non permette il male se non per trarne un bene maggiore. Ci hanno tolto molto ma non la dignità di figli di Dio, per cui non dobbiamo rinunciarci noi. I beni terreni sono utili nella misura in cui servono al fine per cui siamo creati: “lodare, riverire, servire Iddio”, dice Sant’Ignazio di Loyola (al Principio e Fondamento dei suoi Esercizi Spirituali) il cui motto era “soli Deo gloria” poiché sic transit gloria mundi.
Cristo è entrato nella gloria del Padre passando per la via della croce e noi ne seguiamo le orme a immagine del Santo che ci ha chiamati. Tra i travagli e le avversità che incontriamo nella nostra storia, siamo chiamati a non arrenderci ma portare la nostra croce a imitazione di chi ha assicurato la sua vittoria finale. E poi «con la vostra perseveranza salverete le vostre anime» (Lc 21,19).

Considerazioni sulle leggi eversiveultima modifica: 2020-01-10T21:28:41+01:00da sedda-co
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