Erat lux vera, quæ illúminat ómnem hóminem veniéntem in hunc mundum

Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
(Gv 1,9-10)

Il giorno di Natale ascolteremo come brano di Vangelo il prologo di Giovanni, il quale ci dice che “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”, cioè Dio ha assunto la natura umana. A Natale contempliamo primariamente il mistero dell’incarnazione, ovvero come Dio Padre abbia mandato il suo Figlio nel mondo. Il termine “mondo” si presenta nella Sacra Scrittura con significato ambivalente e, per essere compreso, necessita disambiguazione. Leggendo il Nuovo Testamento in particolare emerge subito il contrasto tra spirito mondano e divino, pur tenendo conto che viviamo coi piedi per terra.

Dice San Paolo Apostolo scrivendo ai filippesi che «la nostra cittadinanza è nei cieli» (3,20), applicando il termine civilistico di “cittadinanza” a un’idea ad esso del tutto estranea. Lo dice ai cristiani in contrapposizione a quanti «hanno per dio il loro ventre e un sentire del tutto rivolto alle cose terrene» (3,19). Il cristiano da “cittadino del cielo” vive lo status viatoris come straniero e pellegrino sulla Terra, poiché solo in cielo i cristiani sono «concittadini dei santi e coinquilini di Dio» (Ef 2,19). Come declinare questo pensiero nella realtà della vita umana? Non si tratta di un invito all’evasione dalla storia, al disimpegno nei confronti degli uomini e della polis: il cristiano vive nella compagnia degli uomini, accanto a loro, solidale con loro, ma rompe con la mondanità, non si conforma all’ideologia dominante, non si sottomette agli idoli di questo mondo. L’eternità relativizza il valore dei beni terreni e rappresenta un’opzione in più nelle scelte di vita.

I cristiani abitano la loro rispettiva patria, ma come forestieri; a tutto partecipano come cittadini e a tutto sottostanno come stranieri; ogni terra straniera è patria per loro e ogni patria è terra straniera … Essi dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. (“A Diogneto” 5,5.9)

Il termine “mondo” nella Bibbia ha una pluralità di significati individuabili in senso cosmico (l’universo) e cosmologico (la natura creata eccettuato l’uomo), in senso soteriologico il mondo è realtà travagliata dal peccato e bisognosa di redenzione, in senso ascetico ne deriva la mondanità che porta al peccato, in senso ecclesiologico si intendono gli ambiti secolari o profani nei quali opera l’uomo all’esterno della Chiesa. Il “secolo” è un altro termine, divenuto sinonimo di “mondo” nel linguaggio cristiano discendente proprio dalla Bibbia. Per indicare il concetto di mondo, l’ebraico biblico usa pure il termine ôlam che indica un periodo prolungato di tempo, la realtà in cui viviamo, sottomessa alla dimensione del tempo. Tale parola ebraica è stata tradotta nella versione della LXX con aiôn, termine che nel greco classico indicava la durata della vita umana, quindi un lungo periodo di tempo. Infine la Volgata in latino traduce usando il termine sæculum, che diviene così sinonimo di mondo.
Il sostantivo “secolarità” – derivato dall’aggettivo “secolare” proveniente dal latino sæculum – è di origine moderna, coniato per designare le realtà materiali o spirituali appartenenti al mondo. La secolarità è di fatto la dimensione dei cristiani che svolgono compiti temporali nella “città degli uomini”, è la loro relazione con la storia. Di senso negativo è invece il vocabolo “secolarizzazione” che indica il mondo allontanatosi da Dio con detrimento della religiosità. «La Chiesa ha un’autentica dimensione secolare, inerente alla sua intima natura e missione, la cui radice affonda nel mistero del Verbo incarnato, e che è realizzata in forme diverse per i suoi membri» (Paolo VI, discorso del 2 febbraio 1972). In precedenza il Concilio Vaticano II aveva trattato la responsabilità della Chiesa rispetto alle realtà temporali, nel Decreto Apostolicam actuositatem: «La missione della Chiesa non è soltanto di portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche di permeare e perfezionare l’ordine delle realtà temporali con lo spirito evangelico» (nn. 5/7), «contribuire e consolidare la comunità degli uomini secondo la legge divina» (Gaudium et Spes n. 42). Il magistero conciliare approfondisce il laicato descrivendo il modo per compiere i propri doveri in unione a Cristo; dunque la Chiesa non è stata fondata su un altro pianeta e poi trapiantata sulla Terra, seppur vive straniera nel mondo, è inviata a propagare la vita divina.
La suddetta espressione di Paolo VI richiama il concetto di ministerialità col quale lui inaugura la stagione delle vocazioni laiche nella Chiesa. Alcune parole di Giovanni Paolo II specificano meglio l’impegno secolare dei laici e del clero: «La partecipazione dei fedeli laici ha una sua modalità di attuazione e di funzione che, secondo il Concilio, è loro “propria e peculiare”: tale modalità viene designata con l’espressione “indole secolare”» (Christifideles laici n.15). Il laico di per sé vive nel mondo (non in clausura o romitorio) fa parte della Chiesa nella sua condizione secolare, mediante la quale irradia la fede nel mondo al di fuori della Chiesa; infonde la linfa del Vangelo nelle realtà temporali come il lievito agisce sulla massa. Bisogna capire in senso antropologico che lo spirito cristiano eleva la realtà umana dal di dentro, portandola a perfezione. I santi offrono degli esempi concreti.

Sappiamo che i francescani per carisma vivano in mezzo alla gente, non certo ritirati dal mondo alla maniera dei benedettini. San Francesco d’Assisi chiedeva ai suoi frati di vivere nel mondo “come pellegrini e forestieri”. Si legge ad esempio nella leggenda maggiore di San Bonaventura: «Spesso, poi, discorrendo della povertà, applicava ai frati quell’espressione del Vangelo: Le volpi hanno le tane e gli uccelli del cielo hanno il nido; ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. Per questo motivo ammaestrava i frati a costruirsi casupole poverelle, alla maniera dei poveri, ad abitare in esse non come in casa propria, ma come in case altrui, da pellegrini e forestieri» (FF 1120). L’essere di passaggio in questo mondo per San Francesco motiva il valore della povertà, onde accumulare un tesoro unicamente in cielo dove tignola e ruggine non consumano e dove ladri non scassinano e rubano (Mt 6,19-20).

Acquistò in oltre per simili esercizj un aborrimento così grande di quelle cose che suole stimare il Mondo, che essendogli una volta data una carta, nella quale erano scritti tutti quelli della sua Famiglia, prima di leggerla la stracciò, non curandosi punto d’esser notato in quella, ma sì bene nel Libro dell’eterna vita con gli altri Giusti.
(P.G.BACCI, “Vita di San Filippo Neri”, Libro I, Capo I, n.19)

C’è un episodio della vita di San Filippo Neri sacerdote, nel quale si attesta una sua espressione significativa al riguardo: Se ne stava un giorno in casa della Marchesa Rangona, dov’era la Contessa d’Olivares ambasciatrice di Spagna, la quale dopo alcuni ragionamenti l’interrogò quanto tempo fosse ch’avesse lasciato il Mondo; a cui Filippo rispose: «Io non so d’averlo lasciato mai» (P.G.BACCI, “Vita di San Filippo Neri”, Libro II, Capo XVIII, n.18). Alla nobildonna che domandava quando il santo sacerdote avesse lasciato il mondo per farsi uomo consacrato in tutto alle cose di Dio, San Filippo affermava che pur da prete non avesse mai abbandonato il mondo. Gli oratoriani sono preti secolari e, a questo punto, si è compreso il senso del discorso. San Filippo da sacerdote dispensava la grazia di Dio nei sacramenti, che sono pure i primi migliori esorcismi contro il male. Diceva San José Maria Escrivà che il mondo è buono perché le opere di Dio sono sempre perfette, siamo noi uomini che lo rendiamo cattivo con il peccato. È una sintesi piuttosto estrema, tuttavia vuole dire che amando il mondo lo si può epurare, poiché la fuga da esso è solo un’illusione. Giungeremo tanto più felicemente alla patria celeste quanto meglio avremo operato in vita.

Lo “spirito del mondo” designa a pieno titolo il demonio. Dopo la caduta del peccato originale, Dio poteva lasciare la signoria al principe di questo mondo? «Ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori» (Gv 12,30). Nella preghiera sacerdotale Gesù prega il Padre per i suoi discepoli: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo» (Gv 17,16). I cristiani sono nel mondo come tutti gli uomini, ma non appartengono al mondo perché rinati a vita nuova col battesimo, sanno di venire da Dio ed avere un Padre nei cieli. Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? (1 Gv 5,4s). Quando Gesù, il Figlio di Dio, è venuto ad abitare sulla Terra assumendo la carne mortale, ha condiviso la stessa nostra esperienza terrena, vivendo ogni aspetto dell’esistenza umana. A Natale celebreremo degnamente il mistero dell’incarnazione se vorremo andare incontro al Signore che viene, l’Emanuele “Dio con noi” ma non senza di noi.

In mundo erat,
et mundus per ipsum factus est,
et mundus eum non cognóvit. (Gv 1,10)

Erat lux vera, quæ illúminat ómnem hóminem veniéntem in hunc mundumultima modifica: 2020-12-21T14:47:03+01:00da seddaco
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