State allegri se potete

santinoÈ rimasto celebre e forse il più popolare di tutti, quel detto di San Filippo che lui rivolgeva ai bambini: «State buoni, se potete». San Filippo “pregava” i pargoli che accudiva che, se e per quanto gli fosse stato possibile, restassero buoni. In gruppo e in momenti ludici erano evidentemente piuttosto discoli, non mancavano certo di brio, con la vivacità propria dell’infanzia. Crescendo in età la mente matura in modo da quietare quei bollenti spiriti, fino ad essere soppressi dalla serietà, il lavoro, le responsabilità, ecc. Il peso del vivere lascia poco spazio alla spensieratezza e giocosità dell’infanzia. Il santo della gioia cristiana che conservò l’eterna giovinezza dell’homo ludens, in età adulta rappresenterebbe allora un modello di pagliaccio?
Leggendo la Sacra Scrittura scopriamo se la gioia riguardi solo il buon umore di Filippo Neri oppure tutta la vita cristiana. Nella lettera di San Paolo ai filippesi l’invito alla gioia è coniugato col verbo all’imperativo, ossia un comando: Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi (Fil 4,4). La gioia è “nel Signore”, cioè viene dall’alto, sgorga dall’essere in Cristo; la gioia è continua e resiste sempre alla tristezza; la gioia è legata alla carità, poiché si esprime con benevolenza e porta pace al prossimo; infine la gioia ha un orizzonte escatologico. L’apostolo mette pure in guardia dalla tristezza che demoralizza nella lotta cristiana e, vedendo tutto cupo, esprime ingratitudine a Dio. Specificando meglio l’aspetto psicologico, come si descrive la gioia di cui parla San Paolo? Usando una terminologia oggi desueta potremmo distinguere gioia “interna” ed “esterna”. La prima è una disposizione dell’animo alla pace, che dà serenità anche nelle avversità; la gioia in San Filippo è inscindibilmente legata alla grazia poiché, non solo condizione indispensabile per il gaudio interiore è essere riconciliati con Dio e i fratelli, ma solo dalla grazia può venire la consolazione spirituale. La gioia esterna sarebbe quella che si manifesta esteriormente come allegria, ilarità; essa viene in conseguenza della gioia interna, senza la quale sarebbe solo giocondità baggiana, vivacità balorda, esuberanza farlocca: la gioia dà contenuto al giubilo.

Solo di qui possiamo comprendere le profonde radici del gusto filippino per la festosità e la burla, tipico di chi sa cogliere la giusta misura dell’esistenza umana e di chi, alieno da forme di rigidità difensiva o da una certa spensierata mediocrità, si è lasciato plasmare dall’insondabile ricchezza dell’annuncio cristiano. Il ché viene espressamente colto nel Dialogo Philippus sive de christiana laetitia, laddove l’autore, Agostino Valier, fa dire al Santo: “La gioia vera e intima è dono di Dio, effetto della buona coscienza, del disprezzo delle vanità esteriori, della contemplazione delle altissime verità”.
La gioia di Filippo è gioia “creduta” perché infusa dallo Spirito, ed esige pertanto umiltà e rendimento di grazie. Lungi dal riso sardonico o dall’esaltazione psicologica, si configura quale vero e proprio bene “di fede”, nonché acutissima penetrazione del senso profondo del Vangelo (euaggelion: buona, festosa notizia). Del tradizionale trinomio cristiano “abnegazione-rinuncia-distacco”, Filippo suggerisce la mèta, che possiamo ben esprimere con le parole che Virgilio rivolge a Dante: “[…] perché non sali il dilettoso monte / ch’è principio è cagion di tutta gioia?” (Inf. I, 77-78).
(Simone Raponi, Pazzo di Dio, Ed. Tau, Todi, 2016, pp. 13-14)

Ora pare piuttosto fuori luogo pensare che San Paolo ridotto in catene, detenuto in ambienti malsani e affamato, potesse prorompere in manifestazioni di giubilo. Gli unici spettacoli circensi erano al momento del martirio e divertivano tutti meno che il cristiano condannato a morte. Dunque è possibile la gioia, la letizia di spirito, rallegrarsi spiritualmente, senza per forza esprimere particolari comportamenti di gaiezza. Questo aspetto si ritrova chiaramente in San Paolo, ma meno in San Filippo. Talvolta padre Filippo si dava a vedere in modo volutamente buffo, lo stile scanzonato fu un tratto manifesto in diverse circostanze pubbliche, perfino in chiesa… L’imperativo dell’umiltà intellettuale appare inscindibilmente legato al copione dell’ineptus e del fatus, che il nostro Santo ama recitare. La dissimulatio ascetica di quest’uomo “al limite ed oltre il limite” – come lo definisce H.U. von Balthasar – è finalizzata all’occultamento della propria elevazione spirituale. Ma più egli tenta di eclissarla con tali mascheramenti mortificanti, più essa si manifesta sul palcoscenico urbano (Ibidem). Lo sguardo superficiale degli astanti non coglieva il perché di certuni atteggiamenti: l’autoironia come esercizio di modestia per nascondere la sua santità agli occhi degli altri, per vivere la religiosità con umiltà, per relazioni senza formalismo, per vincere certo clericalismo. San Filippo arrivava a ridicolizzarsi ed essere deriso per mortificare il proprio io, segno di ironia santa e non gioiosa insensatezza; il suo brio non scade mai in frivolezza e la burla in sgarbatezza.

La briosa allegrezza di Filippo, nutrita dalla lettura dei celebri “Motti e facezie del Piovano Arlotto”, rappresenta la dimostrazione pratica della verità dell’amore vittorioso e beatificante di Cristo, riverberata in innumerevoli episodi divertenti, che costellano la sua vita. Non si prende troppo sul serio chi fa di tutto per scostare l’attenzione da sé, nel momento in cui si comincia a stimarlo come santo. Tenta in tutti i modi di attirarsi la derisione, quando lo vediamo andare in giro con le candide pantofole papali regalategli da Pio V, oppure con indosso un’originale giubba di pelle di volpe, per ricevere illustri personaggi. Stessa intenzione nel mostrarsi in pubblico, saltellando con mezza barba tagliata.
Ma il suo spernere se sperni (disprezzare di essere disprezzato) egli lo estende anche ai suoi discepoli, allorché comanda a un Antonio Gallonio di togliersi la tonaca e mostrare a tutti le brache lise e rattoppate; ordina a un Nicolò Gigli di bere a garganella in presenza di altre personalità; o impone a un Pietro Consolini di non ringraziare il cardinale Federico Borromeo per avere favorito la propria ordinazione a suddiacono. Non è quindi difficile avvertire la forza dei colpi inferti dal Santo alla durezza della seriosità, della vanità e dell’amor proprio. Egli insegna in proposito che “tutta l’importanza della vita cristiana consiste nel mortificare la razionale”, cioè nel ridurre l’attaccamento superbo ai propri giudizi e la tendenza sregolata all’esaltazione dell’eccellenza di sé. (Idem, op. cit., pp. 16-17)

Screenshot_2020-11-27 Augusto Santocchi ImageLasciando perdere la peculiarità propria del buffone di Dio (la mortificazione con l’autoironia), possiamo dire che la letizia cristiana si raggiunga con la maturità di fede capace di vivere secondo serena virtù le tribolazioni, le sofferenze, le ingiustizie, il peso del proprio peccato, affinché conduca al «pregusto de’ paradiso», come recita il card. Agostino Valier nel “Dialogo sulla gioia cristiana”: «l’accrescimento di essa fino a che diventerà eterna, anzi, gaudio senza fine nella patria celeste, perpetua dimora di tranquillità e di pace». La realizzazione massima del “buon umore” che raggiungeremo nella felicità celeste, è in qualche modo anticipata dalla gioia nella vita presente, pur segnata dalla sofferenza. In tal senso si coglie l’accompagnamento della pazienza, altro frutto dello Spirito Santo. Paolo sopporta pazientemente le persecuzioni, in modo che trovi comunque gioia e non disperazione. La gioia si fonda nella fiducia in Dio, più grande dei problemi umani. È questa una realtà che non si finisce mai di osservare per tutta la vita: l’allegria superficiale è aleatoria davanti al dolore.
San Filippo facendo suo l’insegnamento di San Paolo, potenzia la gioia finché si esprima in allegria e, mentre curava insolenza ed esuberanza dei bambini, cercava di comunicare la gioia rallegrando il prossimo: “state allegri se potete”, anche quando non è facile.

Bisogna stare molto attenti nella allegrezza di non diventare dissoluto o dare in spirito buffonesco, perché questo rende la persona incapace di Spirito e spunta quel poco che c’è
San Filippo Neri

State allegri se poteteultima modifica: 2020-11-27T16:00:22+01:00da seddaco
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