homework 4^D/p

Individuate nove date, a partire dal “Dolce Stilnovo” fino a Boccaccio che siano significative ai fini del filo logico prescelto: storico, letterario, religioso, giuridico, filosofico ecc.

Ho scelto di sviluppare la tematica religiosa ma sullo sfondo letterario, che a sua volta non può essere snaturato dal contesto storico nel quale si sviluppa. Infatti il periodo storico è ricco di autori di importanza fondamentale, per tutta la letterature italiana di ogni tempo. Autori universali, in parte studiati anche all’estero e in ogni epoca storica in Italia, come Dante. La Divina Commedia è sempreverde nella scuola ieri come oggi, non si è mai smesso di studiare il Petrarca o il Divin Cantore. Questi luminari, inoltre, scrissero in tempi in cui la religione aveva un importanza non trascurabile qualunque fosse il contesto. L’indifferenza religiosa è arrivata più tardi, con l’Umanesimo, all’epoca era riconosciuto al papato, e quindi alla Chiesa, un potere universale tanto morale e spirituale quanto, nondimeno, politico.

Dante nasce nel 1265 e conduce una vita piuttosto travagliata: intraprende la carriera politica, si impegna in campo militare, vive vessazioni sentimentali, riscopre il suo valore nella letteratura. Verso la fine del duecento, maturato sia umanamente che culturalmente, lavorò con un gruppo di poeti coetanei e amici tra di loro che facevano riferimento a un poeta bolognese della generazione precedente Guido Guinizzelli. Tutti loro e non solo Dante, danno origine a una corrente, che verrà chiamata in epoca romantica “dolce stil novo”, che affronta la tematica amorosa con un approccio particolare. Passano dall’amore cortese, forma ideale di amore più vero, a quello gentile, in cui non è la nobiltà di sangue, ma quella dello spirito che conta; il cosiddetto cuore gentile. Questo concetto di amore era anche meglio accettato dalla Chiesa, che poi esaminò minuziosamente la stesura della Divina Commedia apportando le opportune correzioni e censure.

Fra il 1292 e il 1294 si colloca la produzione di Vita nova, l’opera più significativa di tale corrente o scuola poetica, che rappresenta la prima vera e propria produzione di Dante, dopo numerosi tentativi isolati testimoniati dalle Rime. Qual’è la peculiarità religiosa saliente? Come suggerisce lo stesso titolo Vita Nova descrive la rinascita spirituale e il rinnovamento esistenziale prodotti nell’anima del poeta dall’amore per Beatrice; nonostante sia stata scritta dopo la sua morte. Infatti tutto il dolcestilnovo, si può riassumere nella metafora della donna-angelo vista come tramite con l’Assoluto, non soltanto inteso come Dio, ma anche come soprannaturale in genere. Col dolcestilnovo l’amore si stacca dalla sensualità dell’amor cortese per avvicinarsi ad una spiritualità più profonda. La donna, quindi, è capace di elevare spiritualmente, con conseguenza ascetica, facendo avvicinare l’anima alla Divinità. Questa è la vera innovazione in direzione religiosa. È evidente che questo tipo di pensiero si sviluppa completamente al di fuori da un ambiente canonico, dai meandri del Magistero della Chiesa, non certo da persone acculturate teologicamente. Tant’è vero che fin dall’epoca furono opposte diverse obiezioni: “con che rispetto e con che coraggio si può paragonare l’amore verso Dio all’amore per una donna?”. Questa accusa riguarda il primo comandamento e il peccato si avvicina all’idolatria. Ma la risposta di Guinizzelli, è dello stesso tenore e semplicità del Gesù ai sacerdoti: “la mia donna è così bella che l’ho scambiata per un angelo del Paradiso, come avrei fatto a non amarla?”. Così, dal momento che questa corrente non metteva a repentaglio la dottrina mistica cattolica, la Chiesa si limitò ad una semplice azione di controllo. Ancor più quando, poeti della stessa scuola come Cavalcanti, dissentivano esprimendo un parere che si avvicinava più alla voce domenicana: la verità di ragione e di fede si costruiscono con criteri e metodi talmente diversi da non essere comparabili. Ha un approccio più razionale e meno passionale, distinguendo l’anima che indaga, dall’anima sensitiva e dal cuore. Dante che stravedeva per la sua Beatrice, non poteva neanche lontanamente avvicinarsi a questa poetica, che sa quasi di auto-psicanalisi. Personalmente trovo che quest’elevazione spirituale, possibile solo in chi vive l’amore nella fede, possa arrivare ma solo temporaneamente. Infatti è dovuta alla fase passionale dell’amore che è soltanto passeggera. Ma guardando allo stato attuale dei rapporti fra i due sessi nella società moderna, trovo il dolcestilnovo completamente fuori tempo. Oggi non penso sia riportabile nelle comuni esperienze vissute.

Ma come abbiamo detto Dante, quale autentico fiorentino, si impegna nella vita politica della sua città, lacerata dallo scontro tra Guelfi e Ghibellini. Questo suo impegno politico, sia in campo propagandistico che ideologico, non si limita a questa fase della sua vita, ma perdura per tutto l’arco della sua durata, fino a sfociare, negli ultimi anni della sua vita, 1313-18, in un trattato in latino, unica sua opera completamente in prosa: il De monarchia. L’occasione di chiarire definitivamente non solo la sua posizione politica, ma anche quello che sarebbe dovuto essere definitivamente l’ordine regnate, gli fu dato dalla discesa di Arrigo VIII. Esprime in questo trattato un concetto fondamentale dell’etica democratica e in proposito ai rapporti tra Stato e Chiesa: la “teoria dei due soli”. Per l’epoca in cui viene espressa, a ridosso della teocrazia, come vedremo, la trovo di straordinaria modernità che anticipa la moderna laicità dello Stato. A parer mio è una vera innovazione nel pensiero dell’epoca, alla quale Dante si espone andando controcorrente, per primo dal medioevo, senza paura di incorrere nelle consuete sanzioni. Chiaramente non voglio dire che tra i due poteri universali (papato e impero) siano sempre intercorse relazioni tutte rose e fiori, ma per l’analisi e la definizione che desume dal corso della storia, è ammirevole la sua teorizzazione. Dante sostiene la reciproca indipendenza dei due poteri, poiché entrambi brillano di luce propria in quanto direttamente frutto della grazia e della provvidenza divina. L’autonomia dei due poteri universali è possibile in quanto ciascuno di essi si occupa di un fine della vita umana: da una parte la felicità terrena, che deve essere gestita dall’imperatore, dall’altra la beatitudine eterna alla cui preparazione è preposta l’autorità pontificia. E si noti bene il registro e l’ottica prettamente religiosa per esprimere tale concetto, dal momento che, come già detto, il problema dell’ateismo arrivò più tardi, non era certo in discussione l’esistenza e l’importanza di Dio Capo e il suo Corpo.

Ma c’è un “ma”. Dando uno sguardo al contesto storico in cui dante pubblica quest’opera, sale della commiserazione nei suoi confronti. Invero il suo sogno di un mondo cristiano ordinato e pacifico è stato sconfitto. L’impero si sta trasformando in una realtà tedesca, ben lontana dall’idea di Dante. Il Papato, dopo le ambizioni teocratiche di Bonifacio VIII, si avvia ad una fase di declino che porta alla “cattività avignonese”. I comuni si avviano verso la signoria, regredendo quindi in democrazia. Dante eleva un canto ad un mondo che sta tramontando.

Ma chi mai poteva essere questo Papa, di nome Bonifacio VIII, al centro delle critiche sia della Divina commedia, che di un celebre francescano quale Jacopone da Todi? Personaggio che ebbe fama anche fra i sardi quando li barattò agli Spagnoli segnando la loro rovina. Questa pecora nera fra i successori di Pietro, venne eletta al soglio pontificio nel 1294, dopo le dimissioni del mite Celestino V, proveniente dalle file francescane degli spirituali, quindi confratello di Jacopone. Celestino V non era stato all’altezza di gestire abilmente le contese politiche, interne alla curia romana, fra le casate dei Colonna e dei Castani. Bonifacio VIII, che apparteneva alla seconda famiglia, risolse il problema e rilanciò il modello teocratico, dimenticato dall’era romana, secondo il quale il potere religioso doveva dominare su qualunque altra autorità laica. Come dicevamo segnava il tramonto del mondo descritto da Dante in De monarchia.

Bonifacio VIII viene ricordato come un papa oggetto di grandi controversie, sia dentro che fuori la Chiesa, per la sua condotta da uomo di potere più che di Chiesa. Non esito a ricordare quel periodo come il bassofondo della moralità della Chiesa, naturalmente anche per il complesso dei movimenti ereticali e la empia peccaminosità degli ecclesiastici. L’anno scorso presentai una scheda narrativa sul romanzo “Il nome della rosa” ed ebbi modo di approfondire tale discorso, ancor più perché sono tendenzialmente francescano per appartenenza e condivisione. In breve: la causa dell’insorgere di nuove teorie in opposizione all’etica della Santa Madre Chiesa è da ritrovarsi nell’atteggiamento degli alti prelati, che influenzerà inevitabilmente anche il resto del clero. Corruzione, potere, nepotismo, possessività, infedeltà, avarizia, fornicazione, concubinato, diffamazione, sporcano le coscienze dei ministri sacri di alto rango. La riprovazione di tutti i chierici fu spontanea, con apostasie e, quindi, la nascita di movimenti ereticali e di superstizioni che si diffusero a macchia d’olio tra i cristiani confusi e disorientati; soprattutto nello stivale. Guarda caso Bonifacio VIII era il maggior esponente di questa categoria di “religiosi”.

Dunque questo buontempone della Chiesa, era stato fortemente contestato ed è proprio qui che entra in gioco il suo contemporaneo, acerrimo antagonista storico: Jacopone da Todi. Personalmente ho sempre trovato piuttosto simpatiche le sue composizioni, anche perché nella sua critica invettiva mette del sarcasmo e questo gli dà certamente un taglio ironico. Questo celeberrimo e, anch’esso, discusso francescano visse tra il 1230 ca. e il 1306 ca. e sulla scia di Francesco, non nacque già santo, ma conobbe una repentina conversione dopo una prima fase di vita dissoluta. Jacopone riassume in sé le pronunciate venature pauperistiche dell’epoca e, si colloca quindi, al confine con l’eresia. Oggi come oggi, lo dico per riscontro in prima persona, non viene benevolmente apprezzato da certe correnti della Chiesa come l’Opus Dei e per quanto riguarda gli stessi francescani è da rilevare la sua condotta “estrema”. Infatti Jacopone esasperò la regola francescana portandola alle sue estreme conseguenze: la mortificazione (penitenza, astinenza) divenne, ad esempio, autolesionismo permanente, si cavò gli occhi; l’umiltà divenne disdegno di sé; la povertà divenne miseria. Rispetto alla serena e incantata adorazione del mondo di S. Francesco, Jacopone rivela un cupo e spesso disperato rifiuto del mondo, quindi del creato, in tutti i suoi aspetti da quelli corporei a quelli culturali. Quindi i suoi temi caratterizzati, oltre all’invettiva contro Bonifacio VIII, sono anche il rigetto totale della realtà terrena. Per quanto riguarda il rapporto con la poetica spirituale di Dante, Jacopone sente un’incolmabile distanza tra la dimensione finita terrena e quella infinità dell’aldilà. E in quanto casto e continente non c’è donna angelicata che lo possa aiutare, ma soltanto un misticismo disperato, che caratterizza, appunto, la corrente degli spirituali. Nel 1300, anno giubilare, con lo “schiaffo di Agnani”, inizia il declino di Bonifacio VIII, che arrivò al termine della sua vita terrena tre anni più tardi, nel 1303.

Un anno più tardi, era il 1304, con data certa, nasceva un altro eterno poeta italiano di nome Francesco Petrarca. Dante nasceva da un famiglia nobile cittadina, S. Francesco da una borghesia cittadina che intendeva nobilitarsi tramite l’acculturazione dei figli, Jacopone era inizialmente notaio e procuratore legale, Francesco Petrarca risulta essere alquanto errabondo. Abbiamo visto che Bonifacio VIII lascia, pur senza testamento, una drammatica eredità: il Papato in crisi, la cattività avignonese, lo sconquasso interno. A otto anni si trova proprio a Carpentras, alla corte papale francese, in seguito svolse gli studi giuridici tra Montpellier e Bologna, finché nel 1326 ritornò ad Avignone ed entrò a far parte della corte papale. Tanto per restare in tema religioso, questo letterato, prese gli ordini minori e si prestò al servizio del cardinale Colonna. Entrò ufficialmente nella Chiesa prima ancora di laurearsi. Infatti abbandonò gli studi in legge poco prima di terminarli, ma non fu tempo perso dal momento che la preparazione in legge gli fornì una solida base di conoscenza del latino e, questa, gli spianò la strada alla sua carriera.

Conosce il suo momento di gloria nel 1341 con l’incoronazione a poeta laureato in Campidoglio, ma ben presto gli arrivano amare delusioni. Muore il frate agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, sua guida spirituale, infine suo fratello decide di farsi monaco. È quest’ultimo episodio, imprevisto e improvviso, a creare sconforto nel poeta. Petrarca, che aveva preso gli ordini minori più per utilità che per vocazione, ma che rimaneva comunque profondamente cristiano, avverte una contraddizione tra fede e il proprio attaccamento ai beni terreni: il desiderio di gloria e l’amore. In questi due concetti ritornano a bomba i precedenti trattati, ovvero: la vanagloria degl’alti prelati, il tema dell’amore di Dante, la spinta pauperistica dei francescani in favore della fede. Come sappiamo non esistono culture superiori e inferiori, ma alla luce dell’esperienza storica, poiché la storia insegna, una filosofia successiva alle precedenti può smentirle o perfezionarle. Non mi sento di dire che è stato così per Petrarca, poiché è un poeta che scrive completamente immerso nelle sue contraddizioni, ma va pur sempre tenuto presente.

Dopo aver ricercato la giusta solitudine, secondo lui, necessaria ad uno scrittore, nel 1346 inizia a comporre il De vita solitaria, in forma di epistola che poi negli anni successivi trasformerà in un vero e proprio libro di filosofia morale. Come dicevo, a parer suo, l’esistenza ideale del letterato è associata alla solitudine, che non significa rifiuto del consorzio umano, poiché l’uomo è indubbiamente un essere sociale, ma anzi il necessario appartarsi dal frastuono del mondo per meglio meditare, studiare, riflettere. La vita solitaria non è pertanto fuga dal mondo, o peggio disprezzo come per Jacopone, ma una forma di autoriflessione. Segna un salto significativo rispetto alla popolarità francescana, spesso vissuta da illetterati nell’ignoranza. Petrarca cita esempi classici e cristiani, ripresentando così il suo ideale di umanità indipendente dal credo religioso, ma certamente ammette che il massimo livello della vita solitaria è quella ascetica, nella quale l’uomo si dedica all’incontro col divino. Concetto tanto lontano dalla mondanità di Bonifacio e dalla ricerca di Dio tramite la donna amata.

L’anno successivo, nel 1347, dopo una visita al fratello monaco, scelta radicale, il poeta scrive un altro trattato: De otio religioso. Aldilà dell’apparente motivo laicale che colora il titolo, esalta la serenità della vita contemplativa di chi si è dedicato alla vita religiosa integrale e ha del tutto tagliato i legami col mondo; una scrittura più di tipo vocazionale che spirituale. A questo tipo di esistenza, però, il poeta si rende conto di non essere in grado di aderire, pur considerandolo giusto e superiore. Da questo conflitto interiore, il poeta avverte quindi una lacerazione tra volere e potere, che fiorisce poi nella maggiore opera in latino di Petrarca De secreto conflictu curarum mearum (il segreto conflitto dei miei affari), solitamente noto come Secretum. Viene redatto tra il 1347 e il 1353, in seguito a revisioni varie. È strutturata come un serrato dialogo tra l’amatissimo Agostino e Francesco, alla presenza di una donna bellissima, la Verità, che non interviene mai nella conversazione, ma ha la funzione allegorica di garantire la veridicità di quanto scritto nell’opera. Ci troviamo dinanzi a uno dei più grandi santi cristiani, un Padre Dottore della Chiesa. In quest’opera, a differenza della precedente, interamente incentrata sulla spiritualità, si ritrovano due tematiche contrastanti, che già abbiamo visto nel Dolcestilnovo. Ricordandoci di Guido Cavalcanti, appartenente a quella scuola, troviamo una scissione tra fede e ragione, che trascurava la funzione della donna angelicata. Dominante nei versi di Cavalcanti è l’analisi dei comportamenti della mente, dell’anima e del cuore che divengono così i veri protagonisti delle sue poesie. Notiamo, perciò, come non è esaminato il rapporto con Dio attraverso l’amore per la donna, ma gli effetti che l’amore produce su chi ama. Così Petrarca avverte la sua contraddizione interiore tra ragione e spirito terreno. Entrambe sembrerebbe che non abbiano a che fare con il sacro e divino, ma sappiamo che la cultura cristiana mira a far guidare le passioni dalla ragione, onde contenerne le conseguenze. Agostino gli indica quali siano i fini e i modi della vita di un saggio e colto cristiano, sottoponendo a dura critica il suo comportamento. L’anima terrena di Petrarca, invece, rappresenta tutto quel nodo inestricabile di sentimenti, passioni, desideri inconfessati, ambizioni, sogni di grandezza, che impediscono alla ragione e alla retta coscienza di dirigere adeguatamente la sua vita. È nella chiara enunciazione di questa doppiezza che sta la straordinaria modernità del Secretum: tramite Agostino, Petrarca riconosce in sé fondamentalmente i vizi della lussuria, della superbia e dell’accidia. Io trovo che una persona debba sapere il fatto suo e quindi avere delle opinioni ferme, dei pareri irremovibili che non cambino dall’oggi al domani a seconda di come gira il vento. Se in queste posizioni si ritrovano anche idee apparentemente opposte, allora si ha a che fare con una grande mente, che è tanto più completa e acuta, quanto più riesce a conciliarli. Io ad esempio sono uno scaut appartenente ad una associazione laica. Come il fondatore, morto quarant’anni fa, anch’io sono cattolico praticante eppure sono a favore della laicità dello scautismo. Quanto più si riescono a armonizzare questi due interessi, con sottile diplomazia, apparentemente contrapposti, tanto più si dimostra valore intellettuale.

Dopo la Morte di Laura, nel 1350 Petrarca si recò a Firenze, dove strinse una grande amicizia con Boccaccio, di qualche anno più giovane di lui eppure così diverso per formazione. Boccaccio superò la sua crisi religiosa e poetica, anche grazie a Petrarca, che lo difese dalle accuse di immoralità rivolte alle sue novelle. La morte raggiunse Francesco il 18 luglio 1374, proprio alla sua scrivania, mentre ancora lavorava. Boccaccio morirà un anno più tardi nel 1375.

homework 4^D/pultima modifica: 2020-02-06T15:21:13+01:00da sedda-co
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