“insegnaci a pregare”

Dalla seconda metà del ‘500 alla seconda metà del ‘900, per quattro secoli la Chiesa latina di rito romano ha usato per la propria liturgia il messale di Pio V. Oggi viene pubblicata la terza edizione del messale promulgato da Paolo VI nel 1970, cinquant’anni fa. La novità è accompagnata da un certo confronto negli incontri comunitari del clero, senza dubbio positivo per restare al passo coi tempi, senza che i cambiamenti ci vengano addosso prima di riuscire a rendercene conto. Sono occasioni di riflessione per fare il punto sul quid delle nostre esistenze.

La varietà di riti coi quali si celebra la medesima fede si ha da sempre nella storia della Chiesa. La liturgia cristiana, in seguito allo sviluppo geografico, ha assunto forme diverse. Fin dai tempi più antichi all’interno della Chiesa Cattolica si distinse l’Oriente e l’Occidente. Le grandi tradizioni apostoliche dell’antichità cristiana si cristallizzano attorno a delle lingue liturgiche e alla lingua in cui è tradotta la Bibbia. Abbiamo la tradizione Antiochena con il siriaco (un dialetto dell’aramaico orientale), lingua della traduzione detta Peshitta. A questa tradizione appartengono le liturgie siro-occidentale e siro-orientale (detta anche “assira” o “caldea”), che – in India – è divenuta la liturgia siro-malabarese. La tradizione Bizantina con il greco, la lingua della traduzione dei LXX; a questa tradizione appartengono le liturgie di S. Basilio e S. Giovanni Crisostomo. Proprio a Palermo si ha la concattedrale dell’eparchia di Piana degli Albanesi, ove i cattolici celebrano quotidianamente in rito greco. C’è poi la tradizione Alessandrina che si esprime in copto. Il copto deriva dall’antica lingua degli egiziani e in questa lingua è celebrata la liturgia di San Marco. Da questa liturgia – con influssi antiocheni – deriva la liturgia etiopica, celebrata nell’etiopico antico. In ghe’ez abbiamo anche una traduzione della Bibbia, nel cui canone sono inclusi diversi libri apocrifi che ci sono giunti solo attraverso questa traduzione.

Fino alla codificazione della “Messa tridentina” promossa da Papa Pio V, nella Chiesa latina (in Occidente) sussistevano una varietà di riti locali, i quali erano in realtà uno la variante dell’altro. San Pio V impose il proprio messale in tutta Europa, fissando il rito romano e sopprimendo le liturgie difformi; eccezion fatta però per alcuni riti in particolare: ambrosiano, celtico, gallicano, visigotico-mozarabico, cui si aggiungono sottili concessioni a ordini religiosi. A differenza di quanto avviene in Oriente, tutte le liturgie della Chiesa latina avevano in comune la medesima lingua: il latino, cui rispondeva la Bibbia Vetus Latina e la più nota Vulgata. Il latino si presenta allora come un bene spirituale intangibile capace di creare una sorta di comunione diacronica tra gli uomini che ne usufruiscono; esso esprime un’esperienza significativa che possa toccare l’anima dell’uomo in quanto tale, senza esclusioni e senza barriere nel tempo e nello spazio. In principio la lingua della liturgia romana fu il greco, ma dal IV secolo ha conservato il latino in modo esclusivo (dal Pontificato di S. Damaso fino alla riforma liturgica di Papa Paolo VI). Quali sono i suoi pregi?

Se è vero che tra gli idiomi del mondo non esista una “lingua sacra”, esistono certamente lingue ad uso “liturgico”. Abbiamo mutuato questa categoria proprio dagli ebrei, i quali nel culto sinagogale proclamavano le letture in un ebraico che il popolo non era più in grado di capire, ma che restava pur sempre la lingua della Sacra Scrittura, letta nella lingua del volgo, l’aramaico, in altri momenti non cultuali, a scopo didattico. Lo stesso ossequio vi è nel rito romano per la lingua latina, propria del rito medesimo; le letture proclamate in latino si possono ancora oggi ripetere, prima dell’omelia, in lingua vernacola.

Una lingua non correntemente parlata, non essendo soggetta a mutamenti, garantisce una certa precisione di linguaggio. Ci pare utile sottolineare che una lingua “antica” non si possa definire, per questo motivo, “morta”: è tale solo quando scompare definitivamente dalla cultura di un popolo. Dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, avvenuto nel V secolo in concomitanza con l’irruzione di nuovi popoli (“barbari”), la lingua latina diventò immortale, mai più destinata a perire. A partire dal V secolo comunità civili e politiche scelsero il latino per le conversazioni quotidiane, per l’allacciamento di relazioni, per la stesura degli atti burocratici, per la composizione di opere di letteratura, per la celebrazione della preghiera. In tal modo i popoli europei, dialogando tra loro con l’uso della medesima lingua, maturarono un unico e medesimo spirito. Pertanto il latino è garanzia di universalità e, nello stesso tempo, ravviva l’unione con le radici della nostra Tradizione liturgica, teologica e spirituale. Tuttavia vi è chi sottolinea la non comprensione del latino da parte dell’uomo contemporaneo. Questa osservazione ha bisogno di un distinguo. Cosa si intende per “non capire”? Crediamo che la questione non sia meramente linguistica. Il mistero della Rivelazione è in prima istanza un fatto e non un oggetto: il Dio biblico, lungi da essere una monade chiusa in sé stessa, si dona gratuitamente all’uomo. Il fatto divino, l’azione – come osserva don Cantoni – diventa pertanto “comprensibile” nella misura in cui si aderisce e partecipa. Coltivare il senso della presenza del Signore è la vocazione principale della liturgia. Il vocabolo mistero (dal verbo greco mýo, chiudo le labbra) rievoca quindi l’idea di chiusura e di limite. Spesso è collegato ad aggettivi che ne qualificano il rapporto con il divino: meraviglia, riverenza, fascino. Esso abita la delicata tensione tra nascondimento e rivelazione; tra caligine e luce. Può soccorrerci la sola ragione umana oppure bisogna inevitabilmente abbandonarsi ad un cieco sentimentalismo? Entrambe le soluzioni sono inadeguate e sproporzionate. Fede e ragione sono figlie dell’unico Padre. Dinnanzi allo splendore di Dio, alla Luce che abbaglia il nostro intelletto e lo eccede, non rimane che la partecipazione silenziosa ed adorante. L’oratio (preghiera, colloquio), e non le azioni esteriori, è l’anima centrale di una partecipazione attiva.

Negli anni successivi al Concilio Vaticano II si realizza la riforma liturgica che, inventando un nuovo ordinamento (novus ordo), trasforma il rito romano fino allora praticato (vetus ordo). Gli effetti più visibili della nuova liturgia furono la semplificazione della Messa (con omissione di più parti), l’altare al popolo, la lingua parlata. Quest’ultimo aspetto impose di mettere mano al lavoro di traduzione dei testi. Causa di slittamenti semantici, le traduzioni, in materia delicata come la liturgia, che riverbera la dottrina cattolica, rischiano di sortire effetti deleteri. A conferma non sono mancate i decenni scorsi le critiche da tanti e santi uomini di Chiesa di area francese e anglosassone, rispetto alla traduzione in lingua corrente dell’Ordinario della Messa, con alcune espressioni infelici ed equivoche nel Credo e nelle preghiere eucaristiche. In risposta a questa situazione nell’anno santo del 2000, Giovanni Paolo II promulgava una terza editio typica del Missale Romanum in lingua latina, coi relativi lavori di nuova traduzione conclusasi nel 2019. Le rilevanti novità constano nel cambio delle parole rituali “pace in terra agli uomini amati dal Signore”, “come anche noi li rimettiamo”, ”non abbandonarci alla tentazione”, “e a voi fratelli e sorelle”, “scambiatevi la pace”, “con la rugiada del tuo spirito”. Chi pensava avessimo impiegato duemila anni per capire come si celebra la Messa, può ancora stupirsi: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5).

“insegnaci a pregare”ultima modifica: 2020-10-02T14:35:04+02:00da seddaco
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