Con il discorso alla Curia romana nell’imminenza del Natale 2005, Benedetto XVI ha posto all’ordine del giorno della vita della Chiesa la corretta interpretazione e la conseguente applicazione dei documenti del concilio Vaticano II: “Perché la ricezione del concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla chiave di lettura e di applicazione […]. Da una parte esiste l’interpretazione che vorrei chiamare ermeneutica della discontinuità e della rottura; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa […]. L’ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa pre-conciliare e Chiesa post-conciliare. Essa asserisce che i testi del concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili […]. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del concilio […]. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito, e di conseguenza si concede spazio ad ogni estrosità”. Non c’è dubbio, e il Papa lo afferma chiaramente, che l’ermeneutica della discontinuità sia andata per la maggiore in questi quarant’anni. Ed è ugualmente evidente che i paladini della discontinuità hanno fatto della “nuova” messa il loro vessillo. Di fatto mettere in discussione il valore e l’opportunità delle scelte della riforma liturgica post-conciliare ha significato mettere in discussione lo “spirito del concilio”, cioè la sua portata innovativa, quindi la più positiva. Da questo all’essere accusati di tendenze “lefebvriane” il passo è breve. E dato che a nessuno piace passare per reazionario e vedersi appiccicare antipatiche etichette, di fatto un dibattito aperto e sereno su questo tema è stato impossibile.
(Claudio Crescimano, La Riforma della Riforma liturgica, Fede & Cultura, 2012)